Terni, 21 Novembre, 2031
“Siamo sul Ponte Simone de Beauvoir a Parigi. Abbiamo al massimo venticinque anni, lo so perché mi stavano ricrescendo i capelli che un anno prima avevo rasato a zero, una cosa che dall'adolescenza, mi capitava di fare spesso.
È stata una vacanza molto bella fatta insieme a lui.
Due settimane a Parigi a casa di suo zio a giocare agli esploratori.
Eravamo giovani e innamorati, alla febbrile scoperta dell'architettura moderna e contemporanea della città. La sera stremati, dopo la cena ci perdevamo tra le luci di quel posto assolutamente magico, così lo vedevano i nostri occhi, probabilmente perché eravamo alle prime armi con le responsabilità e l'essere quasi adulti.
Allo scadere della vacanza, divenimmo parte integrante di quel luogo e forse più grandi di quando eravamo partiti.
Prendemmo il treno sia all’andata sia al ritorno visto il nostro rapporto con l’aereo non idilliaco e la capacità organizzativa discutibile che non ci lasciarono altra scelta.
Impiegammo diciassette ore per tornare, passate a dormire e a piangere in compagnia di una nostalgia che mi prese ben prima di scendere i gradini di un vagone e approdare nuovamente a casa.
Qui, sorprendo due amiche, a ballare nella cucina del locale, un posto dove ho lavorato per un po'. Fianco a fianco a quella che ho sempre chiamato “seconda mamma” anche se è più grande di me di pochi anni e da un’amica comune, sua socia d’affari.
È stato un anno molto felice.
Ero tornata frastornata da Cortina qualche mese prima e non riuscivo a dare un senso alle giornate, mi aggrappai così a quella bottega che stavano aprendo per dare un respiro nuovo a una città moribonda, un respiro di cui mi nutrii.
Divenni loro collaboratrice così fummo in tre ad abitare quello spazio d’intimità pubblica e familiare.
Ricordo le giornate infinite, sfibrata da una clientela sempre più esigente riguardo al cibo e ogni volta ripensavo a mia nonna, figlia della guerra che, nonostante le ampie vedute, mai comprese gli sbattimenti sull’alimentazione “superflua” di oggi.
Una generazione la sua, che non poteva nemmeno permettersi di scegliere cosa mangiare.
Di quella bottega ho talmente tanti aneddoti che ci vorrebbe una sera intera per raccontarteli.
Mentre accadevano quelle che io chiamavo “meraviglie”, pensavo che le avrei volute narrare a un figlio, ignara di quello che sarebbe successo poi.
Campeggio di Capalbio.
Ci andavo spesso prima che iniziasse l’alta stagione. Avevamo una roulotte piccolissima, talmente piccola che era stata curata e arredata con tutto l’amore del mondo e quelle lucine di Natale, che vedi appese sulla veranda, riscossero un sacco di successo tra i campeggiatori.
Vivere così il mare voleva dire staccare completamente dalla quotidianità, sentirmi più libera.
Portavi lo stretto necessario e lasciavi almeno per un po’ le preoccupazioni in città, dato che nella roulotte non sarebbero entrate. Non c’era spazio, cosa già detta!
Che piacere fare colazione la mattina fuori con il fornelletto a gas, sentire il vento spostare i capelli ormai lunghi, constatare che il sole del giorno prima aveva arrossito le guance, percepire la sabbia sotto i piedi e leggere le etichette dei biscotti in spagnolo, lingua che da sempre voglio imparare, che mai ho studiato.
Nello stesso campeggio ci andavo anche con una carissima amica amante dei gatti, della lettura e delle infradito sempre e comunque.
Fuggivamo entrambe dai nostri casini e restavamo lì il tempo necessario a far passare le tempeste.
Ho appena aperto un conto comune con altre tre persone.
Eravamo in quattro e volevamo iniziare un’attività di coworking, cosa che poi è successa, ma quel giorno ebbi un attacco d’ansia.
Non sopporto le porte sigillate delle banche e in più non sono abituata a investire dei soldi, così mi sono cagata sotto dalla paura.
Se vedi bene a fianco, c’è la polaroid dell’inaugurazione di quello spazio comune gestito per un anno. Mi sono divertita a lavorare lì, era un continuo via vai di amici, clienti, pause caffè e karaoke prima di chiudere e andare a casa.
Questa è una foto scattata da un’amica con la capacità di cogliere anche la vita delle cose.
E’ la casa che non hai avuto la fortuna di vedere e questo mi dispiace.
Il rifugio, dove sono cresciuta e ho vissuto la giovinezza dei miei genitori, dove ho distrutto e ricostruito, dove sono nate idee.
Una casa che ha accolto i compleanni della mia migliore amica, dove ho cenato con mio fratello acquisito restando in silenzio durante i periodi più dolorosi e ridendo nei momenti più leggeri.
Luna mi chiese perché volessi fare un reportage di quel luogo e io le risposi così:
“Nel pomeriggio,
quando mi domando
'perché vivi in questa casa'
Trovo sempre risposta.
La luce che entra dalla finestra
E mi invita a restare”.
- Dovrebbe anche essere scritto dietro. Eccola, Luglio 2020. -
Questa foto è un autoscatto con Lucia.
Una sorella più che un’amica.
Siamo andate a scuola insieme e anche dal preside siamo andate spesso insieme.
Divenimmo famose per aver giustificato un ritardo dichiarando la verità: siamo andate a fare colazione nel nostro bar preferito per ripassare l’interrogazione.
Quel giorno, per la troppa sincerità sfociata in strafottenza adolescenziale, non ci fecero entrare.
2016, l’anno dei Balcani, un’avventura iniziata a febbraio quando prendemmo la macchina e andammo a Matera passando per Trani dove quel pomeriggio dal porto vedemmo la costa opposta. In quel punto esatto affacciate verso il futuro, iniziò il viaggio che poi facemmo ad agosto visitando la Croazia, la Bosnia Erzegovina e il Montenegro.
In questa foto stavamo andando a piedi da Kotor a Tivat.
Era caldo ma non umido, con noi c’era un ragazzo conosciuto in ostello, Devid e ricordo quella giornata come perfetta.
Perfetta perché non pensavo a niente, camminavo senza la preoccupazione del giorno dopo, del giorno prima, di cosa avrei mangiato e se avrei dormito.
Fluivo insieme a due persone che come me nuotavano il quel tempo sospeso.
- Ti faccio vedere l’ultima poi chiudo perché si è fatto tardi.-
Casa di Andrea e Valeria, un appartamento in centro città considerato porto di mare.
Siamo in tanti perché è la vigilia di Natale e la tradizione voleva che dopo la mezzanotte ci si vedesse da loro per scambiare i regali e per dormire tutti insieme.
Le feste in quel periodo le ho amate tanto, sentivo il calore di una famiglia cercata e voluta.
La mattina del 25 dicembre, il primo che si svegliava preparava la colazione per tutti e poi ci si dileguava per non fallire il canonico pranzo dai parenti.
- Sono stanca.
Buonanotte anima mia, adesso spengo la luce e così sia.-”
Mamma mi ha sempre voluto salutare così.
Si alzò, ripose la scatola nel cassetto e lo richiuse a chiave portandosela via.
Non sono riuscito a farle domande perché ho sentito nell’aria tanta malinconia.
Mentre mi parlava, avevo l’impressione che rivivesse quei ricordi come se stesse lì.
Nemmeno mi guardava, ma io l’ho vista, ho visto i suoi occhi così lontani e così lucidi che si perdevano in quei giorni passati.
Per la prima volta, dopo tanti anni che la osservavo aprire e chiudere a chiave il secondo cassetto del mobile in sala, mi chiamò e decise di mostrare quello che io consideravo la sua zona privata.
Non le avevo mai chiesto il perché di tanta segretezza.
Per qualche strano motivo sapevo di non dover lasciare spazio alla mia curiosità di bambino.
Un patto silenzioso tra di noi.
Su quella scatola aveva scritto con un pennarello bianco “la vita prima".
Non ho vissuto quel tempo, sono arrivato dopo quel prima, penso però che oltre alle foto, in quel piccolo spazio, tenga sigillata la spontaneità dimenticata, quella che io vivo in tutt’altro modo, ma sono felice per lei, capace di custodire quei ricordi che si era ripromessa di raccontare a un figlio e sono contento che abbia trovato il modo di farlo con me.
Vado a dormire pensando a quei sorrisi bellissimi.
Immortali.
Buon fine settimana,
Giulia
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